Coronavirus: perché non è ovunque? Dove si diffonderà in futuro?

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Un nuovo studio suggerisce che la diffusione del Covid-19 potrebbe avere un legame con le caratteristiche climatiche delle regioni colpite e la loro latitudine. La situazione potrebbe evolversi nuovamente con l’arrivo dell’inverno nell’emisfero australe.

Già da settimane le domande sull’evoluzione del nuovo coronavirus si stanno facendo spazio tra le persone e con loro la speranza che il caldo possa portare via l’epidemia che ha coinvolto più di 100 paesi nel mondo e colpito quasi 130.000 persone. La rapida diffusione del Covid-19 potrebbe essere arrestata dall’arrivo del caldo? Esiste un collegamento tra l’infezione e le caratteristiche climatiche delle regioni in cui è dilagata? Dove si diffonderà in futuro?

Come anticipato dagli organi competenti, trattandosi di un virus nuovo, che per quanto possa somigliare alla comune influenza resta differente sotto vari aspetti, tirare delle conclusioni adesso sarebbe un azzardo. Sebbene la maggior parte dei virus influenzali abbia la tendenza a svilupparsi e diffondersi secondo condizioni simili – temperature invernali, umidità alta, luoghi chiusi – il nuovo coronavirus potrebbe non dipendere dai medesimi fattori. Ma stando alle osservazioni, man mano che il contagio si estende a nuove regioni, il virus sembra seguire dei requisiti legati all’area di diffusione, più nello specifico, alla latitudine e alle condizioni climatiche.

Osservando le regioni più colpite finora – Cina, Corea del Sud, Iran, Italia, Francia, Stati Uniti nord-occidentali, tenendo conto delle probabili imprecisioni delle rilevazioni e delle disomogeneità nei metodi, appare evidente la concentrazione lungo una certa fascia latitudinale, che va da 30° a 50° Nord, da Est a Ovest. Le aree in questione sono peraltro caratterizzate da condizioni termo-igrometriche piuttosto simili, dove le temperature medie nelle scorse settimane hanno oscillato tra 5 e 11 °C, con umidità relativa media del 47-79%.

Le aree cerchiate rappresentano i principali centri di diffusione del Covid-19, situati lungo una fascia latitudinale tra 30° e 50° Nord.

Lo studio della possibile correlazione tra clima e contagio, condotto da un team di ricercatori guidato da Mohammad M. Sajadi, virologo della University of Maryland School of Medicine di Baltimora, è un primo tentativo di prevedere la futura diffusione del virus nel mondo e nel tempo. Osservando le temperature nel periodo dal 20 gennaio al 20 febbraio 2020, quando l’epidemia è scoppiata nella provincia cinese di Hubei, si nota una media di 6,8 °C a Wuhan, mentre dal 10 febbraio al 9 marzo, quando il contagio ha iniziato a colpire aree esterne alla Cina, la media termica ha oscillato di pochi gradi in tutte le regioni maggiormente colpite – 5,3 °C a Seoul, 7,9 °C a Teheran, 7,8 °C a Piacenza, 8,6 °C a Parigi, 6,0 °C a Seattle.

Il fatto che in nessuna di queste zone la media giornaliera sia scesa sotto lo zero – soltanto a Seoul qualche giorno a febbraio – suggerisce che le temperature molto basse potrebbero costituire condizioni sfavorevoli alla diffusione del virus. Si nota infatti come le località boreali caratterizzate da temperature più fredde, seppure con alta densità abitativa e frequenti scambi internazionali, non abbiano sperimentato una diffusione particolarmente critica. Ne sono un esempio Mosca, nonostante la media invernale più alta di sempre – 2,3 °C dal 10 febbraio al 9 marzo – dove sono stati registrati soltanto 3 contagi, peraltro italiani, e Toronto, con 36 casi in tutta la provincia dell’Ontario, che fa 13,5 milioni di abitanti e ha avuto una media di -1,4 °C.

Allo stesso modo, però, il virus risulta poco diffuso nelle regioni tropicali ed equatoriali, nonché nell’emisfero australe. Va precisato che la continua evoluzione della situazione potrebbe anche rovesciare la situazione attuale e che l’estrema facilità di contagio potrebbe determinare lo sviluppo di nuove aree critiche. Non è escluso, infatti, che l’infezione potrebbe dilagare in località dove soltanto adesso si registrano i primi casi di contagio, come in alcuni paesi nordici.


La diffusione del Covid-19 ha mostrato finora un’incidenza maggiore in luoghi caratterizzati da temperature miti, rispetto a regioni molto fredde o molto calde.

Quanto alla possibile estinzione della malattia grazie al caldo, il team sostiene che l’aumento delle temperature potrebbe fungere da deterrente nelle aree attualmente critiche, ma creare le condizioni potenzialmente favorevoli alla diffusione con l’avanzare della primavera nelle regioni nordiche. Come dimostra uno studio sull’epidemia di SARS del 2003, del resto, la diffusione dei coronavirus è scoraggiata dalle elevate temperature e umidità dell’aria.

Fermo restando che ogni ipotesi è possibile con un virus nuovo, gli esperti fanno notare una scarsa diffusione in regioni tendenzialmente calde o afose: a Singapore, con 5,5 milioni di abitanti e una temperatura media di 29 °C in questo mese, si sono registrati soltanto 166 contagi; stessa cosa in India, con soli 60 casi in tutto il sub-continente – tenendo conto della probabile sottostima a causa delle precarie condizioni sanitarie del paese – e una temperatura media di 23,6 °C.

Un altro dato che renderà interessante stimare la stagionalità della malattia sarà l’evoluzione nell’emisfero australe con l’arrivo dell’inverno, che giungerà a giugno. Il modo in cui si diffonderà il Covid-19 nel mondo aiuterà a comprendere meglio la malattia e, nello scenario in cui possa ricomparire in futuro, a trovarsi preparati per fronteggiare il fenomeno. Non è detto, infatti, che il virus possa scomparire del tutto o seguire la tendenza dei ceppi virali della comune influenza. Si tratta di un fenomeno dotato di estrema complessità, dove i fattori ambientali, biologici, antropici e climatici determinano una forte variabilità nella sua analisi. Soltanto il tempo potrà dirci di più sull’esito di questa emergenza sanitaria, nella speranza che possa finire presto, o quantomeno, di trovare una cura per la malattia.

Articolo di Erika del 13 Marzo 2020 alle ore 13:16

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